Siamo tornati a parlare con Jean Samuel Rostan, il giovane che abbiamo intervistato mesi fa, che aveva preparato la sua mitica Fiat Panda “vintage”, trasformandola in un camper in cui trascorrere vacanze fuori porta, all’insegna dell’avventura.
Sembra proprio che la mitica Fiat Panda anni 80-90 sia la sua passione: ne ha comprata un’altra insieme al suo socio e l’ha trasformata nell’auto da rally con cui i due hanno partecipato al Panda Raid. Nelle puntate precedenti, Jean Samuel ci ha parlato dell’incredibile esperienza vissuta nel deserto in Marocco, a cui ha partecipato con Andrea e con la loro Panda soprannominata “La Duchessa”. Abbiamo raccontato tutte le modifiche meccaniche e tecniche realizzate sull’auto pre-partenza e poi, al loro ritorno, ogni aspetto tecnico e organizzativo del viaggio.
Oggi torniamo a intervistare Jean Samuel per scoprire tutti i segreti relativi alla loro meravigliosa Fiat Panda del 1993 e su quello che il Panda Raid, una corsa nel deserto che attraversa il Marocco, è stato a livello emozionale. Un’esperienza incredibile, tra dune e immense distese di sabbia, a contatto con una popolazione che vive in condizioni estreme.
I due ragazzi sono partiti alla volta di Almeria, in Spagna, dove il personale della gara ha fatto i controlli di tutte le auto, e si sono imbarcati alla volta del Marocco, per arrivare a Nador. Tappa finale Marrakech. Un’avventura senza eguali.
La linea del traguardo l’hanno tagliata, ma più del risultato, ciò che conta davvero è l’esperienza che hanno vissuto insieme, all’insegna dell’avventura e portandosi a casa un bel bagaglio colmo di “lezioni di vita”. Capacità di adattamento e prove di guida estrema, ma anche contatto con una natura incontaminata completamente differente da quella a cui siamo abituati, la vita in mezzo al deserto, il contatto con persone di culture e lingue differenti: anche questo è Panda Raid.
La prima cosa a cui avevamo accennato anche nella puntata precedente è la difficoltà a familiarizzare con il roadbook
Esattamente, è stato proprio difficile all’inizio capire come usarlo per orientarci, in quanto c’erano dei simboli, dei numeri e una leggenda non proprio di immediata comprensione, quindi ci abbiamo messo un po’ per comprendere come andassero interpretati.
Alla fine abbiamo capito che veniva indicata la distanza totale e poi, per ogni cambio di direzione e svolta, erano presenti un disegnino e i metri da percorrere tra una svolta e l’altra. Sembra facile, ma trovare punti di riferimento nel deserto è praticamente impossibile.
C’è da dire poi che le distanze indicate sul roadbook non sono poi percorribili in modo fedele, perché chi ha realizzato lo strumento è passato nella stessa pista, è vero, ma basta davvero poco – percorrendo distese così enormi, come tenersi un po’ più a destra o a sinistra o allargare una curva – per fare cambiare le distanze anche di qualche metro.
Comunque noi dopo qualche ora siamo riusciti a capire abbastanza bene come muoverci ed è stato via via sempre più semplice.
Avevate anche un altro strumento che contava l’avanzamento, giusto?
Esatto, il trip master, che conta l’avanzamento in metri. Lo accoppiavamo con le indicazioni del roadbook: quando i due valori combaciavano sapevamo che era il momento di effettuare una svolta.
Ricordo che il fatto di esservi “persi” inizialmente vi ha un pochino smaliziato e aiutato a imparare a usare il roadbook e il trip master più rapidamente rispetto agli altri, almeno vi siete subito preparati a quello che poi sarebbe stato…
Proprio così.
Come erano organizzati i campi?
Come abbiamo detto nella prima parte dell’intervista, ogni sera per ogni tappa veniva allestito un campo per mangiare, dormire e poi organizzarsi per la partenza della mattina successiva.
L’organizzazione ci ha lasciati davvero a bocca aperta, perché sapevamo che avremmo pernottato in mezzo al nulla – nel deserto – e ci siamo ritrovati ad avere davanti a noi ogni giorno un enorme e meraviglioso campo allestito a regola d’arte, con tende e un pavimento ricoperto di tappeti e poi tanti tavoli, tante sedie, tutto sempre apparecchiato per noi, un grandioso servizio self-service per poter gustare la cena e il tè, una zona con il falò per stare tutti insieme, la musica. Incredibili anche i servizi igienici, composti da bagni e docce separati, nonostante fossimo in mezzo al deserto, era sempre presenta l’acqua calda, grazie a un’enorme cisterna.
Non ci aspettavamo davvero che potessero allestire dei servizi così complessi in un luogo così ostile, perché eravamo seriamente in mezzo al nulla.
E dell’accoglienza del personale, che dire?
L’accoglienza è stata altrettanto impeccabile, il personale era cordiale e gentile con tutti, qualsiasi cosa uno avesse bisogno loro erano a disposizione. Era tutta gente locale ed è una cosa che ci ha fatto molto piacere: vedere quanto un evento come il Panda Raid sia in grado di dare lavoro tantissime persone. In ogni zona in cui ci spostavamo – giorno dopo giorno – lavoravano persone diverse, le più vicine del luogo.
E poi c’erano i meccanici marocchini che invece ci seguivano in ogni tappa, e sistemavano man mano le auto che ne avevano bisogno: loro erano sempre gli stessi.
Come comunicavate? È stato difficile?
Parlavamo in pratica un mix di lingue, era tutto abbastanza spontaneo e improvvisato. Usavamo l’italiano con gli italiani ovviamente, che non erano pochissimi, e con gli altri – principalmente spagnoli – abbiamo provato ad abbozzare uno spagnolo che al terzo giorno sembrava di padroneggiare al meglio, ma in realtà ci siamo resi conto che aggiungevamo solo la S alla fine delle parole. Con i marocchini è stata invece una mezza tragedia, andavamo per tentativi e finivamo per farci capire a gesti. È stato comunque un aspetto divertente e di rilievo anche dal punto di vista culturale.
Come lavoravano i meccanici per le riparazioni in loco?
Alla fine di ogni tappa c’era il camion dei meccanici a 8 ruote motrici lungo almeno 13 m e al suo interno vi era ogni sorta di ricambio utile per aggiustare le macchine. La cosa bella è che queste Panda fortunatamente sono auto semplici in tutto, anche nella meccanica, mentre l’elettronica è praticamente inesistente: se qualcosa si rompe in genere è facilmente riparabile.
C’era chi si ritrovava solo con la gomma forata, ma anche chi aveva il motore fuso e quindi ci si ritrovava a vedere scene in cui meccanici cambiavano blocchi motore sul momento, utilizzando strumenti e tecniche a dir poco rudimentali.
In gara con voi c’erano tutte Panda datate come la vostra?
Certo, le auto erano tutte Panda degli anni Ottanta-Novanta. Capitava che magari una di loro non potesse essere riparata perché non c’era il ricambio disponibile, allora veniva scortata presso un’officina in un paese vicino, dove si decideva cosa fare. In questo caso ti davano una penalità perché non finivi la tappa, ma potevi ripartire insieme agli altri dalla data successiva.