Siamo abituati a campionati di motociclismo di vertice come Motomondiale e Superbike che sono seguiti in tutto il mondo e per classi e regolamento, sono il riferimento per tutti gli organizzatori degli altri campionati continentali e nazionali. A metà degli anni novanta però c’è stato un campionato che, per essere calzanti, definirei “singolare” e comprendeva moto molto diverse tra loro per struttura, potenza, tecnica, applicazioni, uguali solo nell’aver un propulsore monocilindrico e chiamato appunto Supermono. Vi hanno preso parte piloti forti e motociclette molto rare compresa quella che ad oggi l’ultima Ducati monocilindrica prodotta e che è stata condotta in pista anche da Max Temporali, quarantanove anni, oggi commentatore per la tv, pilota di lungo corso e grande divulgatore.
Abbiamo raggiunto Max per farci raccontare la sua esperienza nel campionato Supermono e tra ricordi e romanticismo ci ha dato una lucida visione di quello che erano le moto e questa categoria unica e spettacolare, ma non solo.
Il Supermono è stato l’embrione della Moto3 e il bello era l’artigianalità delle moto. Una volta era normale e le moto da corsa erano tutte artigianali, le costruivi da zero e facevi dei piccoli prototipi, mentre oggi di prototipi non c’è quasi niente e onestamente non è prototipo neanche la MotoGP. Questo perché ci sono un sacco di componenti uguali sia su Yamaha ad esempio, che su Honda, c’è il monogomma e si va nella direzione opposta rispetto al passato.
Come si metteva in pista un Supermono?
”Il Supermono è stato il campionato più fantasioso e creativo dove i meccanici si saranno divertiti sicuramente perché di lavoro da fare ce n’era tantissimo che non si sapeva da che parte iniziare. Tutto partiva da un motore monocilindrico intorno al quale si costruiva il telaio, la ciclistica, la carena e di solito inventavi in base a quello che avevi. Le Cagiva Mito sono state molto sfruttate perché avevano delle dimensioni interessanti per ospitare della potenza in più rispetto al semplice 125 cc. Da lì è poi nata la tendenza a realizzare qualcosa di serie come la Gilera Superpiuma che a livello stradale non ha avuto un grande successo”.
E com’erano queste moto?
”La pecca più grande di tutte queste moto era l’affidabilità. Essendo “fatte in casa”, i meccanici si arrangiavano per trovare qualche cavallino e le spremevano oltre le possibilità umane. Ricordo che ad Hockenheim per una gara di Europeo, eravamo ai cancelli e al pilota del team Motorando è rimasto in mano il manubrio per colpa delle vibrazioni e non è neanche partito per la gara.
E’ poi capitato anche a me che comunque correvo con una moto più prestigiosa di quello che c’era in griglia normalmente che era la Ducati Supermono. Era una moto che costava una follia però ricordo che una volta a Misano si ruppe l’asta del freno posteriore e all’altezza del “Carro”, che nel vecchio senso di marcia era una sinistra da fare in seconda, uscendo dal suo supporto picchiò nell’asfalto che la fece rimbalzare come un proiettile sfondando il codone e colpendomi sul didietro. Tra una moto e l’altra c’era sempre un abisso di differenza. Montavano tutte gomme diverse, motori diversi, freni diversi e quando si andava sui circuiti veloci come Hockenheim o Monza si vedeva la differenza in velocità tra una e l’altra. Era il bello di queste gare. C’erano anche le MUZ che erano guidate da piloti mediocri, generalmente tedeschi o olandesi, che non erano dei fenomeni, ma con moto veloci come quelle andavano forte”.
Però ti sei divertito
”Questa era un po’ l’avventura del Supermono, tanto che ci facevano sempre correre a fine giornata perché imbrattavamo d’olio tutta la pista ed eravamo visti malissimo dalle altre categorie. Si spargevano quantità di filler industriali e quando non eri competitivo, puntavi sulle sfortune degli altri perchè spesso accadeva che i motori più delicati e più spinti saltassero per aria. La metà della griglia non vedeva la bandiera a scacchi, però erano delle gran moto. Per darti dei riferimenti, nel 1997 a Monza, sempre nel campionato Europeo, c’era la Yamaha con il team ufficiale. I giapponesi si presentavano con questa moto che era una 850 cc, ma sembrava una 250 da gran premio, si chiamava Over, il team era olandese e il pilota giapponese che la guidava, che non era neanche un granché, usciva dalle varianti in impennata perché poteva contare su una potenza che gli altri si sognavano. Girava sui tempi delle 750 Sport Production di quel periodo”.
E chi ti ha impressionato di più come pilota
”Ripercorrendo un po’ le gare del Supermono devo dire che mi ha impressionato di più Gigi Dalmaso, un pilota che era già avanti con l’età e guidava una moto che si era costruito utilizzando il motore dell’XT Yamaha, un motore comune, presumibilmente 550 cc, che stava insieme con il fil di ferro. Mentre io guidavo una Ducati da cinquanta milioni di lire, lui, con la sua moto che non aveva cavalli e sul dritto non spingeva, curvava come nessuno sapeva fare, in un modo allucinante e lo vedevi proprio a occhio che s’inclinava più di tutti gli altri.”
E’ un po’ quello che ci manca oggi nelle corse, vedere colmare un gap con l’abilità nella guida, piuttosto che con un ingegnere che s’inventa qualcosa.
”Oggi siamo tutti omologati e il problema è che non puoi inventarti più nulla. Ci sono tante regole, tanti paletti, tanti limiti entro cui devi stare, mentre là non c’era nessun paletto. Ti trovavi con questa Over che di fatto era un team ufficiale Yamaha che investiva dei soldi e poi ti trovavi la “Yamachina” di Dalmaso con il motore dell’enduro, che ciclisticamente se l’era cucita addosso, faceva quello che nessun’altro era in grado di fare e i suoi tempi sul giro erano spaventosi. C’era anche Vittoriano Guareschi che era molto veloce, ma stiamo parlando di carriere e risultati in questa categoria che non sono mai state riconosciute. Se tu prendi oggi il pezzo di carta con la classifica del 1995 o del 1997 e leggi di un Guareschi quinto, è un risultato che non racconta com’era quel campionato. Quel piazzamento era dovuto più che per la tua abilità, anche dalle rotture che potevi aver avuto nell’arco della stagione.
L’altro pilota che più mi ha impressionato è stato Walter Bartolini, uno che ha corso con mille moto in diverse categorie e ha fatto veramente di tutto. Anche lui correva con un monocilindrico Villa con cui faceva delle cose impressionanti. Bartolini somigliava a Dalmaso, però era più tecnico. Rispetto a Dalmaso, che si buttava in curva a occhi bendati e due volte gli andava bene e la terza volava in aria, Bartolini lo faceva con più cognizione e probabilmente anche con più mezzi a disposizione.”
E come si affrontava un campionato del genere.
”Era un modo anche economico di andare a correre perché potevi scegliere se investire dei soldi o farlo con passione. Ti prendevi una Honda Dominator incidentata, recuperavi il motore e lo mettevi sul telaio di una Mito piuttosto che di un’Aprilia o della Honda da GP e potevi correre con poco. Era un campionato molto romantico, un ambiente molto semplice, c’era gente più matura e piuttosto che un trampolino di lancio, rappresentava un po’ il satellite che rientrava dallo spazio. Il pilota che aveva già fatto le cose importanti della sua carriera e finiva lì, era competitivo, ma non si portava dietro quello stress che aveva avuto in altre situazioni.”
E i tuoi ricordi più belli?
”Ricordo di una gara a Monza quando correvo con la Ducati che andò molto bene. La settimana prima eravamo stati a Magione per il campionato “open” e non ero soddisfatto, non mi ero trovato con le gomme. A Monza invece avevo montato delle Dunlop e la mia moto era cambiata tantissimo. Sul dritto mi prendevo venti chilometri all’ora di distacco proprio dalla Yamaha Over, ma quando arrivavamo alla staccata della prima variante o alla Roggia, la superavo e mi ricordo il boato della gente dalle tribune. In quell’occasione la gara faceva parte del contesto del mondiale Superbike e si può immaginare quanta gente ci fosse sugli spalti, tant’è che per la prima volta firmai gli autografi, mi chiesero le saponette usate perché avevo fatto questa bella gara. Poi, mentre avevo ancora la coppa in mano, vedo un tizio allontanarsi con la mia Ducati, ma non che scappasse, l’accompagnava a mano tranquillo. Alberto Ghioni, che è stato colui che mi ha fatto correre e investiva su di me, ed è stato con me un po’ per tutta la mia carriera di pilota, l’aveva venduta ad un inglese che gli aveva offerto più soldi di quanto l’avesse pagata (ride). In pratica il mio Supermono è finito così.”
Recentemente hai pubblicato un post dove raccontavi di quanto fosse importante per te limitare i costi per correre e che approccio avevi alle gare, dove risparmiavi in certe spese per farlo più con passione che altro. Anche in quel campionato era così?
”Il Supermono si prestava molto a questo approccio. Quando siamo andati ad Hockenheim eravamo solo io e Alberto che nella vita faceva il commercialista, un mestiere che con le corse in moto e l’officina non c’entra nulla. Avevamo la Ducati sul furgone e tutto quello che serviva per la gara c’era, ma era al minimo sindacale. Arrivati in Germania, dormivamo sul camion di qualcuno con cui Alberto aveva preso accordi e avremmo trascorso così il weekend. Purtroppo, si era dimenticato di mettere in carica la batteria della moto e ho fatto solo tre o quattro giri della gara e mi sono dovuto ritirare. In un certo senso, a fare le cose da povero succede. E’ certamente molto romantico, ma non è corretto ed è meglio che non succeda.”
Secondo te, un campionato del genere potrebbe essere utile per creare poi la versione stradale di quelle moto, venderle e far girare i motociclisti per strada con un mono?
”Oggi l’evoluzione del Supermono è partita con l’introduzione della Moto3 e me lo ricorda nel suono del motore, che per me resta un suono tutto sommato “brutto”, ma lo ricorda perché si tratta dello stesso tipo di architettura. Non c’è stata però una proiezione stradale, eccetto che per le 300, quindi il mercato delle piccoline. In realtà hanno poi gli stessi cavalli di quelle che erano le mono da gara e un monocilindrico di fatto non è un motore facile perché ha un “on-off” abbastanza avvertibile, soprattutto se si sale di cilindrata. Non che fosse scorbutica da mettersi di traverso, ma piuttosto perché dovevi fare molta percorrenza e avevi bisogno di una precisione di guida assoluta e il tipo di attacco e risposta che avevi con l’acceleratore, doveva essere molto dolce. Farei fatica a vedere un Supermono moderno e oggi sono più per il bicilindrico.”