Se nella seconda metà degli anni ’40, le Case motociclistiche e specialmente le inglesi avevano ripreso possesso del mercato riproponendo i propri modelli anteguerra, la “fame” di mezzi di trasporto, fece sì che nel decennio successivo, le cose cambiassero. Gli anni 50 portarono innovazione nel settore moto e dal Moto Guzzi Galletto del 1950, fu un’escalation di novità.
Principi e Cavalieri Neri
Dopo anni di oblio, dovuti anche alla particolare situazione storica, in Italia si tornò a parlare di aziende straniere. Una di queste fu certamente Vincent Motorcycle di Stevenange, in Inghilterra. Il marchio britannico, le cui moto erano considerate le più veloci e confortevoli del mondo, nel 1955 propose una serie di motociclette, contraddistinta dalla lettera D, con un’innovativa carenatura che ne copriva ampiamente tutte le parti meccaniche, esclusi i comandi e le ruote. Ne nacquero Black Knight e Black Prince, mosse da un bicilindrico a V di 998 cc e Viktor, equipaggiata da un monocilindrico di 499 cc.
Questa scelta, non solo estetica, rendeva la serie D una gamma di mezzi molto moderni. Ad una forte componente aerodinamica, la carrozzeria coniugava elementi di comfort come l’ampio parabrezza, protezioni alle mani sul manubrio e una cassetta per gli attrezzi, capace di ospitare qualche oggetto come guanti e impermeabile. I due sporgenti bandoni laterali, oltre a proteggere le gambe del guidatore, fungevano da convogliatori d’aria per il motore.
La fine della serie D
Nonostante queste moto suscitassero un grande interesse, per la Vincent furono il canto del cigno. Le difficoltà di realizzazione della carrozzeria, portarono la serie D a disfarsene presto, ritornando allo stile aperto che ne metteva in mostra tutti i dettagli modificati. Dopo un periodo di collaborazione con la tedesca NSU, a causa della critica situazione finanziaria, Vincent arrestò la produzione nel 1956.
Mostro o illusione?
Presentata nel 1956, la Chimera 175 non fu per nulla un’illusione. Ideata dal Conte Mario Revelli di Beaumont, realizzata dal progettista dell’Aer Macchi Alfredo Bianchi, con il contributo dell’Ing. Mario Speluzzi, fu la novità più clamorosa del Salone di Milano. Con forme estetiche futuristiche, rispetto alle Vincent dell’anno prima, sotto la carrozzeria nascondeva una bella e originale meccanica dotata del caratteristico telaio con monoammortizzatore.
Il suo aspetto aeronautico e la linea filante, la immortalavano come “la moto fuoriserie con la linea di domani”, come recitava la reclame del suo lancio sul mercato. Il motore monocilindrico orizzontale di 175 cc era avvolto in una specie di fusoliera che ricordava la bocca di un jet, con tanto di bordo cromato e profili allungati stile Cadillac.
Troppo avanti per essere vera
Pur essendo molto più concreta e accessibile delle costose Vincent, il pubblico non era ancora pronto a proposte così avanzate e non la accolse bene. Abituato a moto più classiche e a meccaniche scoperte, anche il modello 250 cc presentato qualche mese dopo la prima, non ebbe riscontro e la Chimera fu un autentico fiasco commerciale.
Dalla carrozzeria delle auto nasce la Slughi
Alla Moto Parilla, l’Ing. Cesare Bossaglia, nel 1958 realizzò un modello che imitava la nuova tecnologia automobilistica abbandonando il telaio, in virtù di una carrozzeria autoportante. Con un forte richiamo alla Chimera, la Slughi proponeva una livrea innovativa, composta da due gusci di lamiera saldati insieme, ai quali era appeso il motore nella parte inferiore. Bassissimo, consentiva spazio al serbatoio della benzina, oltre che a un ampio vano porta bagagli.
Per tale progetto non era possibile utilizzare pezzi e motori già esistenti e in particolare, il monocilindrico 4T orizzontale di 99 cc, pensato per guadagnare spazio all’interno della carrozzeria e abbassare il baricentro, dava alla Slughi le giuste proporzioni per stare nel segmento delle turismo leggere. Con una velocità massima di 90Km/h, i consumi contenuti sfioravano la prestazione di 50Km/l.
Cane del deserto
Questa evoluta creazione, consumava così poco da determinarne la scelta del nome che, metaforicamente, ne sintetizzava le caratteristiche. Come il marchio dell’azienda milanese, lo Slughi è infatti il levriero autoctono del Marocco, molto apprezzato dagli arabi. Da vero cane del deserto, è famoso per resistere alla sete e alla fatica.
La sfortuna commerciale di questi modelli, che per la troppa avanguardia stilistica non vennero capiti, li ha resi oggi delle vere perle per i collezionisti. Ricercati e pagati a cifre oltre il qualche migliaio di euro, vivono una seconda vita, che sembra rendere merito al genio stilistico che le ha concepite, confermando quanto fosse visionario il primo decennio del secondo dopoguerra, con idee in anticipo sui tempi.