Entrare nella massima categoria del motorsport non è cosa semplice, specie con l’attuale proprietà a stelle e strisce. Liberty Media ne ha dato prova con “l’affaire Andretti“. Una pantomima che si muove al bordo dell’inverosimile, sulla quale, almeno per il momento, una vera spiegazione logica sembra non sussistere. In tempi non sospetti, la proprietà statunitense aveva mostrato una certa apertura verso l’ingresso nel paddock di un’undicesima squadra. Per tale ragione è andato in scena una sorta di bando, con tanto di candidatura di diversi progetti. La Federazione Internazionale ha visionato gli incartamenti e, in seguito alla così definita “manifestazione di interesse” (fase 1), ha promosso la proposta capitanata dal figlio di “Piedone” (Mario Andretti).
Lo ha fatto a margine delle valutazioni messe in atto in questo largo processo decisionale, dove la FIA ha applicato una solida procedura dove i candidati sono stati oggetto di un’analisi concernente le capacità sportive, tecniche e finanziarie. Il tutto sommato all’esperienza, alle risorse umane del team e ai criteri che includevano la gestione del tema sostenibilità verso le emissioni zero per la stagione 2030. L’unica proposta delle quattro valutata efficiente fu appunto quella del gruppo Andretti Formula Racing LLC, capace di superare la “prova di ammissione” e soddisfare appieno i rigorosi criteri stabiliti sugli aspetti materiali. Risultati trasmessi in un secondo tempo alla FOM (Formula One Management), che doveva occuparsi della mera questione commerciale.
Pareva quasi una formalità per Andretti, che peraltro aveva già trovato un accordo con Renault per una prima fornitura dei propulsori in attesa di Cadillac. La F1 è il desiderio di molti, ma evidentemente non è per tutti, ci verrebbe da dire. Sì, perché a conti fatti, il comunicato di Liberty Media per giustificare la porta sbattuta in faccia ai conterranei non regge. “La proposta non rappresenta un valore aggiunto per la massima categoria del motorsport“, una frase suffragata da altre faccende legate alla fornitura delle PU, ai vantaggi minimi che la F1 avrebbe raggiunto grazie al gruppo americano e alla responsabilità troppo grande degli organizzatori nell’adoperarsi durante il fine settimana di gara con una scuderia in più. La verità sembra però affondare le radici in un altro aspetto.
Spartire la torta in undici fette significava ridurre gli introiti a ciascuno dei team attualmente presenti in F1. La netta opposizione di queste scuderie sarebbe pure provata, in quanto alcune indiscrezioni riportano l’esistenza di una chatWhatsApp, dove Stefano Domenicali, presidente del Formula One Group, e diversi team principal sarebbero stati in comunicazione diretta per trovare l’accordo utile a escludere la candidatura peraltro idonea di Andretti. Un’indagine dell’antitrust è in corso per fare luce sugli eventi. Tutte queste premesse servono a farci ragionare sull’attuale status della F1. Una categoria parecchio complicata. Andiamo per ordine…
Haas aggira il budget cap, Toyota studia da vicino la F1 moderna
Durante l’ultima settimana le pagine di quotidiani sportivi, web e riviste specializzate hanno riportato una notizia: Haas e il gruppo Gazoo Toyota annunciano una stretta partnership tecnologica. Una collaborazione tra il colosso nipponico, il più grande in assoluto del mondo occidentale, e la realtà statunitense diretta da Eugene Francis Haas che oramai abita la F1 dal 2018. Una news che si presta a diverse interpretazioni relative alle volontà della casa giapponese. Come sappiamo, Toyota ha già fatto presenza all’interno del paddock. Entrò nella categoria durante la stagione 2002direttamente come costruttore. Questo significa che, oltre alla vettura, il gruppo decise di costruire gli allora propulsori aspirati senza legarsi a nessun tipo di fornitore esterno.
Un’avventura che, a discapito delle risorse economiche praticamente illimitate, di fatto risultò fallimentare per il team che possedeva una sede europea a Colonia, Germania. Otto stagioni avare di soddisfazioni sino all’abbandono al termine del campionato 2009. Tornando all’attualità, l’accordo di cui sopra fornirà un supporto molto grande alla Haas, poiché il teamdi F1 americano non ha mai avuto le risorse adatte per puntare in alto. La scuderia con sede a Kannapolis potrà pertanto utilizzare la base operativa di Toyota a Colonia, potendo accedere a galleria del vento e simulatore. Un partenariato che aiuterà e non poco la Haas a superare i propri limiti. Una manovra che offrirà vantaggi competitivi altrimenti irraggiungibili.
Ma un fattore interessante riguarda il budget cap. Tetto spese della Haas che non verrà intaccato, in quanto non ci sarà alcun costo da rendicontare nell’ambito dei calcoli finanziari imposti dalla Federazione Internazionale. Non parliamo di una “sponsorizzazione”, ma bensì di un coinvolgimento tecnico tangibile in vista della nuova era regolamentare che entrerà in vigore dalla campagna agonistica 2026. L’interesse della casa nipponica per la F1 era già noto da tempo, considerando l’annuncio della McLaren al Gran Premio del Giappone. Ci riferiamo a Ryo Hirokawa, “conducente di proprietà Toyota”, al quale è stato affiato il ruolo di terzo pilota della scuderia di Woking. Scelta per nutrire un modello di condivisione tra le parti.
A differenza di Audi, che prevede di essere competitiva dalla stagione 2030, quindi dopo cinque stagioni spese per farsi le ossa in F1, Toyota preferirebbe studiare da vicino la massima categoria. Una mossa molto utile, in quanto “aprire le porte di casa” alla Haas e collaborare con la McLaren, di riflesso significa immagazzinare le informazioni necessarie per “capire” al meglio come muoversi. I giapponesi hanno l’intenzione di creare un bagaglio tecnico che possa indicare la strada corretta per un ipotetico e altresì realistico ritorno nel paddock. Studiare un piano di azione, per poi eventualmente affondare il colpo senza gettare risorse preziose. Questo sarebbe l’obiettivo non dichiarato che sicuramente farà parlare di sé nei prossimi mesi.
F1, Ferrari protegge le sue proprietà intellettuali
In ultima istanza, un’ulteriore considerazione riguarda la Ferrari. Come sappiamo, la scuderia italiana è già partner di Haas nel “modello sostenibile”. In questo caso, parliamo del team diretto da Ayao Komatsu, che fa ricorso ai TRC(Transferrable Components, n.d.a.) della rossa. Componenti della monoposto acquistate dal Cavallino Rampante, che di fatto ne detiene la proprietà intellettuale. Per questo, all’interno della gestione sportiva di Via Abetone Inferiore 4 è presente una piccola base operativa della Haas. Un rapporto “intimo” che serve a tenere sotto controllo il lavoro degli americani. Senza dubbio, parliamo di una partnership che ormai si è fortemente consolidata con il passare delle stagioni e, proprio per questo, un soggetto del calibro di Toyota non passa di certo inosservato.
Ferrari ha tenuto diverse riunioni con la Haas, in quanto non vuole correre il rischio che la multinazionale giapponese sia messa nelle condizioni di attingere alle proprietà intellettuali del team modenese. Marcare il territorio, insomma, per definire la linea da non oltrepassare. Benché Toyota, per il momento, abbia parlato di una semplice collaborazione per accrescere il know-how che poi verrà riversato nelle vetture stradali, la storica scuderia italiana teme che questa cooperazione possa essere il primo passo di un piano decisamente più grande e ambizioso, atto a rimettere piede, come detto, in F1. D’altronde, a chi non farebbe comodo acquisire a “titolo gratuito” il bagaglio tecnico di un team come la Ferrari?