Racconto dal futuro, il destino dei motociclisti e delle api

Carlo Portioli, esperto di moto per Virgilio Motori, ci racconta la sua visione dal futuro dei motociclisti

Foto di Carlo Portioli

Carlo Portioli

Esperto moto e cultura custom

Le moto e la musica, mia moglie e gli amici, la birra e le chiacchere ma più di tutto amo cercare di capire. Le mie opinioni sono espresse dall'alto di niente.

La macchina si fermò automaticamente sopra l’area di sosta per la sostituzione/ricarica delle batterie poco fuori casa. Appena confermata la destinazione raggiunta, spento il sistema di intrattenimento e rimossi da ognuno dei passeggeri i visori VR, l’auto aprì la portiera con un sibilo e la famiglia di suo figlio scese dal portellone in vetroresina frontale. Quattro sedili in linea, nessun sistema di guida manuale, nessun rumore, zero emissioni. Il più grande dei suoi due nipoti, passando dal garage per entrare in casa, lanciò ancora una volta lo sguardo nell’angolo più lontano dove, da dietro una montagna di vecchi oggetti, occhieggiava un pezzo di ferro impolverato, con un manubrio e due ruote.

Il ragazzo attese la fine della cena, si avvicinò al nonno che era andato a scaldarsi davanti al camino e disse: “Nonno, mi racconti la storia di quando usavi quella cosa che hai in box per andare in giro?”. “Parli della motocicletta? Siediti qui. È una storia di tanto tempo fa… di quando il motore a scoppio e la benzina erano l’unico modo per muoversi sulle strade” rispose il nonno.

Il ragazzo si sedette accanto al vecchio e lui cominciò a parlare con un tono basso: “Non era affatto migliore, era semplicemente un’altra epoca. Un’epoca in cui le macchine erano fatte di ferro e acciaio e i motori a scoppio andavano a benzina e inquinavano. Quello di oggi è un mondo migliore, più sicuro e pulito, però… senza più motociclisti”. “Che fine hanno fatto i motociclisti?” chiese il ragazzo con aria incuriosita. “Semplicemente se ne sono andati. Finiti. Estinti, come le api”.

Dopo una breve pausa per raccogliere le idee il nonno riprese: “Vedi, i motociclisti erano una specie fragile, che aveva bisogno di muoversi liberamente su strade poco affollate. Si spostavano in gruppo, legati da un senso di profonda amicizia e di fratellanza. Lo facevano per il puro piacere di farlo insieme, senza uno scopo o una destinazione da raggiungere. Andare in moto li faceva stare bene: ognuno bene con se stesso e tutti insieme bene con tutti gli altri. Le moto erano bellissime, diverse tra loro e ogni motociclista le sceglieva a propria immagine e somiglianza”. Il ragazzo allora chiese: “E poi cos’è successo?”.

È successo che al mondo non ci fu più posto per loro. Le auto, i furgoni e i camion diventarono troppi. Il traffico era sempre più caotico. La gente guidava in modo distratto, facendo spesso dell’altro, soprattutto con il cellulare. Era vietato ma le forze dell’ordine chiudevano un occhio e spesso tutt’e due”.

“Davvero? Che tempi strani!” Disse il ragazzo. “Si, strani e pericolosi per chi guidava su due ruote. Alla manutenzione dell’asfalto si dedicava poca attenzione mentre le buche si trasformavano in crateri mortali, così come ai guard-rail, lame d’acciaio ai bordi della strada che nessuno si preoccupava di sostituire. Nel frattempo i giovani si avvicinavano sempre meno alle motociclette, tenuti a distanza dalle scelte commerciali delle case motociclistiche che puntavano a vendere moto sempre più costose. Mentre i motociclisti invecchiavano e le strade si facevano sempre più pericolose, i giovani non scoprivano le ragioni che avevano fatto innamorare le generazioni precedenti. Il mito della libertà individuale e del rocknroll invecchiava con i suoi ultimi adepti, senza che una nuova generazione fosse pronta a raccogliere il testimone. Perché andare in moto era una scelta di vita, un modo scomodo, fragile e pericoloso di spostarsi. In fondo non c’era nessuna buona ragione dal punto di vista razionale per continuare a farlo. Per questo, semplicemente, le persone smisero di farlo… “.

Dopo un breve silenzio aggiunse: “Ci sentivamo forti, liberi, ribelli, guerrieri, stupidi e leggeri come libellule. In una parola, ci sentivamo vivi. Non sono dispiaciuto per me, sono dispiaciuto per te e per le emozioni che questo mondo più pulito e razionale non può darti. Ma in fondo è giusto e triste così…”. Il nonno tacque, mentre teneva gli occhi fissi sul fuoco. Brillavano di ricordi, forse di malinconia. Il ragazzo per la prima volta, dietro quel vecchio, vide l’ombra dell’uomo forte che era stato, di quell’uomo che, in un tempo lontano, aveva corso sulle strade libero insieme ai suoi simili. E lo invidiò.