Quali sono i presupposti per creare una smart city ideale

Come si crea una città dalla mobilità intelligente? Ci sono dei presupposti da rispettare, alcuni di questi esistono già nel mondo: dobbiamo solo applicarli

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Riccardo Asta

Giornalista smart mobility

Nato a Genova nel 1985, laureato in architettura ma con una formazione multidisciplinare. Da anni collabora con riviste specializzate trattando temi legati alla mobilità sostenibile e al mondo bici, occupandosi in particolare del segmento e-bike e di tutte le novità che lo riguardano

Le cosiddette smart cities sembrano ormai diventate un ideale con cui creare dei render più che una realtà del futuro che ci attende. Da un certo punto di vista possiamo vederle come la versione moderna di quelle che i nostri antenati chiamavano proprio “città ideali”, ossia utopici progetti di aggregati urbani in grado di rispettare criteri di vivibilità e ottimizzazione degli spazi. Se in passato questo era vero soprattutto a livello urbanistico, oggi sono le possibilità offerte dalla tecnologia a fare gola.

Il problema è che più il tempo passa, più sembrano diventate un concetto futuribile destinato a non avverarsi mai: da una trentina d’anni si parla di città intelligenti, di come sarebbe viverci, delle tecnologie che ci saranno a disposizione e di tutti i vantaggi che apporterebbero alla collettività. Certo, risultati come Sustainable City degli Emirati Arabi Uniti potremmo considerarli un buon esempio di “città intelligenti”, ma la sfida delle smart cities riguarda soprattutto il patrimonio edilizio esistente. Costruire una città ex-novo è un buon esercizio ma ha poco a che fare con l’applicazione di principi e tecnologie in un aggregato urbano vivo e con una storia alle spalle. 

Le difficoltà dunque sono tante, e una possibile risposta a questo ritardo potrebbe essere proprio la frammentazione delle soluzioni che non riescono a convergere tutte insieme in un unico luogo. Un’altra potrebbe essere la mancanza di presupposti sia tecnici che teorici affinché possano decollare alcune idee, ma quella che sembra essere la più plausibile, ritiene valide entrambe le opzioni. Da un lato infatti abbiamo bisogno di far coesistere alcune tecnologie senza le quali non si va da nessuna parte, dall’altro sono necessari alcuni presupposti che preparino il terreno.

Questi presupposti già esistono, ma non sono contenuti tutti nella stessa città. Una delle prime cose da fare dunque, potrebbe essere quella di cominciare a scambiarsi queste idee e a capire come applicarle nei vari contesti. Vediamo quindi quali sono queste ipotesi in circolazione che ogni città dovrebbe integrare sfruttando l’esperienza delle altre, ovviamente con particolare riferimento alla mobilità.

Consumo di suolo ed espansione urbana

La premessa delle premesse è rappresentata da questi due punti. Per rendere le città più vivibili è necessario limitare il consumo di suolo e l’espansione urbana. Le ragioni sono tante e vanno dalla preservazione della biodiversità alla riduzione dell’ inquinamento. Le città sono le principali isole di calore, ossia luoghi in cui la temperatura locale tende ad alzarsi, e con essa anche tutta una serie di effetti deleteri. L’espansione delle città allarga le isole di calore perché allarga le attività umane inquinanti; allunga i tempi di percorrenza (con buona pace delle ancora più utopiche città da 15 minuti) e mangia spazio alla natura. Uno studio di qualche anno fa condotto da Deloitte non includeva i monopattini elettrici nei sistemi di trasporto proprio perché non in grado di coprire le grandi distanze delle città future.

Inoltre, non dobbiamo sottovalutare il tema della biodiversità, perché è più inquietante di quello che normalmente pensiamo. Invadere e alterare nicchie ecologiche con un preciso ruolo nell’ecosistema può scatenare effetti inaspettati a cui siamo totalmente impreparati. Siamo in grado di sapere come gli animali gestiranno l’aumento della temperatura? Sapremo fronteggiare animali “impazziti” per il caldo, per la mancanza di cibo, per l’alterazione del loro habitat? Sta già accadendo in alcune città, costrette ad esempio ad affrontare l’invasione dei cinghiali; e come potrebbero andare le cose se cominciassero a impazzire i volatili?

In Francia il Conseil de Paris ha presentato il suo nuovo Plan local d’urbanisme (PLU), ovvero il Piano regolatore locale che per la prima volta è “bioclimatico” e mira a “definire gli orientamenti della capitale entro il 2035-2040″, in particolare conciliando le risposte all’emergenza climatica con il miglioramento dell’ambiente di vita dei parigini. Per le smart cities servirebbe prendere più esempio da leggi di questo tipo, da far coincidere con il recupero e il ripopolamento dell’edificato in stato di abbandono.

trasporto pubblico smart cities
Fonte: 123RF
Il trasporto pubblico gioca un ruolo essenziale nelle smart cities

Trasporto pubblico

Con il rischio di scomodare alcuni interessi di categoria, è necessario ripensare diversi aspetti del sistema di trasporto pubblico. Oltre a mettere in sicurezza le strade, quindi effettuare una corretta e ordinaria manutenzione delle pavimentazioni, è necessario creare una rete infrastrutturale completa e adeguata al territorio in cui opera. Questo significa intrecciare le normative locali alla pianificazione di un luogo, creando nel caso soluzioni specifiche che non possono più, vista la disastrosa situazione ambientale in cui ci troviamo, essere vittima di limiti burocratici. 

Ciò significa inserire più alternative di trasporto, alcune tanto banali quanto inspiegabilmente sottovalutate (soprattutto in Italia): oltre a virtuosi esempi di sharing mobility, un esempio è il moto-taxi, da noi fondamentalmente illegale ma in paesi come la Francia invece largamente utilizzato. Questo sistema snellisce il trasporto pubblico e privato, inserendosi capillarmente nel tessuto urbano, riuscendo così a ridurre i tempi di percorrenza e la pressione sul traffico. Niente male.

Un altro esempio è dato dalla diversificazione delle tariffe nel trasporto pubblico, le quali devono rispettare un criterio di reale utilizzo da parte dell’utente: biglietti a tempo o a chilometro sono soluzioni fattibili e già esistenti in paesi come Germania, Giappone, Repubblica Ceca o Lituania. Ecco descritte in poche righe due idee semplici ma fondamentali che tutte le smart cities dovrebbero adottare per rispetto del cittadino e per garantire un flusso di entrate regolare.

Parcheggi

Lo sapete che in Giappone non vi danno il permesso di acquistare un’auto se non dimostrate di avere anche un luogo dove parcheggiarla? Ad alcuni potrà sembrare una legge un po’ estrema, ma si tratta di una normativa giustificata dalla crescente densità abitativa del paese del sol levante, fenomeno che a dirla tutta ormai riguarda gran parte delle nazioni. Le automobili sono per giunta aumentate di dimensioni, il che complica molto le cose, soprattutto in certi contesti già stretti. Sempre per lo stesso motivo, il parcheggio in strada a Tokyo è proibito in alcuni luoghi e fasce orarie (di solito quelle notturne): l’auto “mangia” spazio pubblico, lo stesso che potrebbe essere utilizzato per evitare l’espansione urbana come dicevamo al primo punto. Ormai in occidente il rapporto automobile per abitante è quasi 1:1, senza contare veicoli commerciali e motocicli: troppo alto per essere sostenibile.

Ma il tema dei parcheggi deve riguardare anche gli altri veicoli, bisogna pensare alle bici, alle e-bike, agli scooter e, in alcuni casi, anche ai monopattini elettrici. È tutto fattibile e già testato, nel nord-Europa (ad esempio in Belgio), esistono bike box chiusi delle dimensioni di un posto auto e a prova di furto: non serve perciò creare strane strutture o altro, basta convertire un posto auto ogni mezzo chilometro (trecento metri, dicono alcuni studi). Le città che aspirano a diventare smart devono avere tutte un approccio simile a quello del Giappone, tenere cioè conto dei limiti di spazio che ogni città possiede e agire strategicamente di conseguenza.

E-bike e LEV (veicoli elettrici leggeri) 

In alcuni stati degli USA è possibile guidare le cosiddette speed e-bike, biciclette a pedalata assistita che possono raggiungere circa i 40 km/h. A New York i rider hanno a lungo lottato affinché questa legge venisse introdotta anche nella loro città, visto che sembra apportare soprattutto vantaggi. Nella Grande Mela hanno deciso di utilizzare questa classificazione di speed e-bike:

  • Classe 1: biciclette a pedalate assistita che raggiungono 32 km/h ca;
  • Classe 2: biciclette a pedalata assistita con acceleratore che raggiungono i 32 km/h ca;
  • Classe 3:  biciclette a pedalata assistita con acceleratore che raggiungono i 40 km/h ca.

Una legge di questo tipo applicata alle più grandi metropoli non solo permetterebbe di riconsiderare il tema della costruzione delle piste ciclabili e del loro impatto in termini di occupazione dello spazio urbano, ma consentirebbe spostamenti più agili e puliti in aree soffocate dall’inquinamento come la pianura padana.
Probabilmente sarebbe anche necessario rivedere il ruolo dell’acceleratore applicato alle e-bike, che sembra fare la differenza in termini di sicurezza quando ci si trova in mezzo al traffico. Due anni fa Annick Roetynck, manager della LEVA-EU (Associazione Europea Veicoli Elettrici Leggeri), dichiarava come il regolamento europeo in tema di veicoli fosse inadeguato per la nuova mobilità elettrica: “Dal giorno in cui è stata fondata, l’associazione ha sostenuto che sia la Direttiva Macchine che il Regolamento 168/2013 sono inadeguati e imprecisi per i veicoli elettrici leggeri […] Ci sembra che, data l’urgenza della crisi climatica, non si debba sprecare altro tempo per rimuovere i colli di bottiglia legali per sbloccare il potenziale di mercato dei veicoli elettrici leggeri”. Forse è giunto il momento di ascoltare queste parole e seguire l’esempio di città come New York, almeno nelle smart cities.

bici smart city
Fonte: 123RF
Tutti i veicoli devono imparare a coesistere e a sfruttare correttamente la tecnologia disponibile

Smart working e calamità naturali 

Durante le allerte meteo gli incidenti stradali in città aumentano vertiginosamente. Succede un po’ ovunque e sempre più spesso, anche a causa dell’intensità con cui i fenomeni atmosferici si verificano. Le cosiddette “bombe d’acqua” ad esempio, possono essere previste fino a un certo punto, non si può sapere con esattezza quando, dove e come colpiranno. Se però viene diramata un’allerta meteo o se semplicemente le condizioni climatiche al risveglio mettono a rischio l’incolumità di chi deve recarsi al lavoro, sarebbe opportuno applicare il telelavoro nei casi in cui la tipologia di attività lo permette.

Secondo la guida creata dopo la pandemia dall’agenzia delle Nazioni Unite “ILO”, Organizzazione internazionale del lavoro (International Labour Organization), il telelavoro è la principale alternativa quando si presentano eventi di grande portata come pandemie, atti di terrorismo e fenomeni climatici estremi. Purtroppo non ci sono ancora leggi che applicano queste direttive avvenga, le aziende scelgono liberamente se attuarle o meno. Certo è che nelle smart cities sarebbe opportuno evitare che i cittadini mettano a rischio la loro vita inutilmente, gravando oltretutto sulla sanità e causando inutile inquinamento.

Educazione al rischio e all’attenzione

L’ultimo punto è forse importante quanto il primo perché in un certo senso agevola la realizzazione di tutti gli altri. La distrazione è una pandemia silenziosa che fa da sfondo a quasi tutte le tragedie stradali della nostra epoca. Purtroppo si tratta di un problema ormai insinuato a livello sistemico e soltanto con un approccio integrato è possibile pensare di risolverlo. Come dice la psicologia, il primo passo è la consapevolezza: dobbiamo prendere atto di avere un problema generalizzato che colpisce sempre più le fasce di età più basse e che riguarda la capacità di attenzione e di valutazione del rischio (come dimostrano le imprese di alcuni Youtuber).  Dobbiamo perciò intervenire a livello formativo attivando dei corsi di educazione al rischio e all’attenzione. Ciò risulta ancora più importante lungo le strade, dove pochi individui si trovano nella scomoda e stressante situazione di dover essere la coscienza di chi non ha coscienza.

In vari paesi tra cui Australia e Regno Unito, sono stati lanciati dei corsi di mindfulness per guidatori professionisti e non, a dimostrazione di quanto sia necessario intervenire in tal senso per aumentare la sicurezza stradale. Sarebbe quantomeno paradossale che in città che si definiscono smart vi siano abitanti incapaci di mantenere livelli minimi di attenzione e di individuare una situazione di pericolo. Ben vengano quindi i corsi attivi in Australia e Regno Unito, che forse sarebbero da associare al rilascio/rinnovo della patente.

schema mindfulness
Fonte: healtyheads.org.au
La mindfulness rende il guidatore più calmo e attento

Senza questi presupposti minimi, le cosiddette smart cities corrono il rischio di diventare degli aggregati tecnologici privi di una logica funzionale, un guazzabuglio scoordinato di tante cose che potrebbero addirittura complicare la vita dei loro cittadini, perlomeno in termini di mobilità.